Alcune settimane fa, durante una conferenza che stavo tenendo sull'assistenza spirituale in hospice e le cure palliative, un partecipante mi ha chiesto cosa suggerisco per provvedere ai bisogni spirituali di un paziente con demenza in fase terminale, ad esempio di Alzheimer.
La sua domanda era piuttosto pertinente, poiché l'Alzheimer provoca una grave compromissione del funzionamento del cervello e si traduce in perdita di memoria, cambiamenti di umore e personalità e, in definitiva, incapacità di comunicare e svolgere le attività di base della vita quotidiana.
Sembra improbabile che un tale paziente possa partecipare o trarre beneficio da ciò che di solito consideriamo "assistenza spirituale".
Nel momento in cui ho esaminato la questione, mi è venuta in mente la storia di una paziente che una volta ho assistito, di nome Maria. Quando mi è stato chiesto inizialmente di occuparmi di Maria, paziente di casa di riposo, allettata e incapace di muoversi o parlare a causa dell'Alzheimer, ho avuto paura nel vederla. La parte che preferisco nell'interagire con i pazienti è quando sono in grado di connettermi con loro e di ascoltare le loro storie, e ho pensato che sarebbe stato impossibile instaurare un qualsiasi tipo di rapporto significativo con una persona nella fase finale dell'Alzheimer.
Ho trovato Maria nel suo letto d'ospedale nella casa di riposo, sdraiata sul fianco destro e rannicchiata in posizione fetale. I suoi occhi erano chiusi, e non rispondeva alla mia voce o al mio tocco, quando l'ho esaminata. Sapevo dalla relazione infermieristica che questa era la sua condizione solita: respirava da sola e assumeva alimenti e acqua quando le venivano offerti, ma questo era tutto quello che poteva fare.
Ho finito il mio esame in pochi minuti, dal momento che non sono riuscita a farle alcuna domanda o a conversare. Ma sapevo che la durata minima della visita che potevo fatturare era di 15 minuti. Mi sarei sentita disonesta ad addebitare quel tempo senza averlo passato con il paziente, così ho deciso di stare con Maria nella sua stanza per l'intera durata dei 15 minuti. Inoltre, ho pensato, Maria meritava di avere quel tempo e quell'attenzione tanto quanto qualsiasi altro paziente.
Quindi ho cominciato le mie visite con Maria. Dopo averla esaminata mi sedevo su una sedia accanto al letto, leggevo la sua cartella e scrivevo le mie note, guardando il trascorrere dei minuti. Ma un giorno, mentre stavo ascoltando il cuore di Maria con lo stetoscopio, un operatore ha fatto cadere un vassoio nel corridoio fuori dalla porta. Per il rumore, Maria ha sussultato e ho sentito il suo aumento di frequenza cardiaca, mentre il suo respiro si faceva più rapido e gli occhi si spalancarono per la paura. Le ho subito afferrato le mani e mi sono chinata a parlare con lei, dicendo: "Va tutto bene, Maria. Sei al sicuro. Non c'è niente che ti farà del male". Mentre a poco a poco si rilassava e lo sguardo di terrore lasciava il suo viso, mi sono resa conto che una parte di Maria era in grado di rispondere alla mia voce.
Da allora ho cominciato a parlare con Maria ogni volta che l'ho vista, leggendo il suo grafico ad alta voce, commentando il cibo che aveva mangiato quel giorno e dicendole che l'infermiera riferiva che suo figlio, che viveva in un altro stato, aveva chiamato per chiedere di lei. Ho iniziato a desiderare queste visite insolite, perché trovavo molto rappacificante essere alla presenza di Maria. In quei 15 minuti potrevo semplicemente sedermi e stare con lei, senza aspettative o pressioni.
Un giorno ho notato una foto di famiglia sul comodino di Maria e l'ho presa per guardare più da vicino le persone ritratte nell'immagine. Al centro ho riconosciuto una Maria molto più giovane e più sana, che indossava un bel vestito blu. Era seduta accanto a un bel signore, che doveva essere suo marito, e circondata da giovani adulti e bambini di tutte le età. Teneva una bambina in grembo, con indosso un abito bianco di battesimo.
Animata da questa nuova scoperta ho cominciato a descrivere l'immagine di Maria, compreso il suo vestito blu, il bambino neo-battezzato e l'uomo che pensavo potesse essere suo figlio Carlos, che chiamava la casa di riposo ogni settimana per informarsi su di lei. Nel riporre di nuovo la foto sul comodino, ho dato un'occhiata a Maria vedendo le lacrime che scorrevano lungo il viso. Immediatamente mi sono chinata ad abbracciare il suo corpo fragile, perché sapevo per certo che avevo trovato Maria; dall'interno delle cellule aggrovigliate e delle sinapsi del suo cervello avevo trovato un collegamento reale con la sua anima.
Ho visto Maria solo alcune volte prima che morisse. In quelle ultime visite ho avuto modo di parlare molto di più direttamente a lei e farle sapere che lei era amata, che ho capito quanto potesse essere difficile questa parte della sua vita, che era libera di andare quando era il momento giusto per lei. Quando sono tornata in quella casa di cura dopo la sua morte, ho sentito il dolore della perdita mentre passavo davanti alla sua stanza vuota. Mi sarebbe mancata Maria, perché l'ho conosciuta - la avevo trovata e anche lei, in un certo senso, mi aveva trovato.
Maria ha raggiunto uno scopo profondo in quegli ultimi mesi della sua vita: mi ha insegnato che l'anima non può essere sminuita da qualsiasi malattia o infortunio che danneggia il corpo fisico. Mi ha insegnato a rispettare la dignità e l'integrità di ogni vita, indipendentemente dal livello di funzionamento della mente e del cervello. Mi ha insegnato ad essere risoluta nella ricerca del collegamento con l'anima di ogni singolo paziente sotto la mia cura e anche ad essere coraggiosa nell'insegnare agli altri a farlo.
E quindi la mia risposta sul come dare assistenza spirituale ai pazienti con demenza è semplice: riconoscere e credere che ogni paziente ha un'anima intatta, essere disposti a dare il proprio tempo e presenza a quella persona, ed essere autentici nell'esprimere affetto ed interesse. Siamo tutti connessi su un livello o un'altro e, per quanto possa essere aggrovigliata o difficile la comunicazione, è possibile, con pazienza e determinazione, "trovare Maria", ovunque l'abbiamo incontrata.
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Scritto da Karen M. Wyatt, MD, autrice di 'What Really Matters: 7 Lessons for Living from the Stories of the Dying' (Cosa conta realmente: 7 Lezioni di Vita dalle Storie del morente)
Pubblicato in The Huffington Post il 6 Novembre 2012 - Traduzione di Franco Pellizzari.
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