Anne Kolesar pensava di avere preparato bene il suo viaggio in bicicletta il mese scorso al "Grand Canyon" in Pennsylvania, con vestiti per il freddo e spuntini. Ma dopo aver percorso circa un centinaio di chilometri in auto, ha guardato nello specchietto retrovisore e si è accorta che non c'era la bici!
La Kolesar, di 61 anni, ride di gusto raccontando questa storia. Ma a parte sull'inconveniente aleggia la consapevolezza del suo elevato rischio genetico di Alzheimer. "Mi sento come se ci fosse questa specie di spada appesa sopra la mia testa, che potrebbe cadere, e non so quando", ha detto la Kolesar, che si divide tra Pittsburgh e Indiana in Pennsylvania. "E non sono sicura come lo saprò".
Non è solo perchè ha visto le facoltà mentali del padre deteriorarsi nel corso degli ultimi 20 anni, o che anche la zia e la nonna fossero succubi della malattia. La Kolesar ha partecipato ad uno studio clinico che ha rivelato che lei ha una copia della variante genetica ApoE-4. Questo gene è collegato a circa il 25% dei casi di Alzheimer, secondo l'Alzheimer's Association.
Individuare le forme dell'APOE non fa parte della pratica medica di routine. Ma la Kolesar era curiosa di conoscere il suo rischio, così si è offerta di partecipare ad uno studio di ricerca che ha testato i partecipanti per le varianti di APOE.
L'Alzheimer non ha cura o trattamento efficace nel lungo termine. Molte sperimentazioni di farmaci non sono riuscite a mostrare ritardi duraturi o inversioni dei sintomi nelle persone che hanno già la demenza. Ecco perché gli scienziati stanno esplorando quali impronte potrebbe creare l'Alzheimer nel corpo prima che comincino del tutto i sintomi. Oltre ai geni come l'ApoE-4, sono alla ricerca di proteine associate alle placche e ai grovigli nel cervello. La speranza è che la comprensione sia dei fattori di rischio che della tempistica dello sviluppo delle patologie della malattia portino a trattamenti efficaci nelle persone che non hanno iniziato a mostrare degrado di memoria o di pensiero.
Ma per realizzare esperimenti umani finalizzati alla prevenzione, i ricercatori hanno bisogno di identificare una nuova categoria di pazienti: quelli nello stadio "preclinico" di Alzheimer. Con scansioni cerebrali e test sul liquido cerebrospinale, gli scienziati possono isolare gli individui che potrebbero mostrare i sintomi del morbo entro un massimo di 15 anni. Questo non ha a che fare con la genetica in sé stessa, si tratta della comparsa di biomarcatori prima che i sintomi comincino.
Sta però emergendo un'importante questione etica: si deve dire alle persone senza sintomi che sono, veramente, in fase "preclinica"? E' utile o significativo sapere che si potrebbe essere a 15 anni dall'inevitabile? "Dobbiamo prepararci, clinicamente e socialmente, a questa epoca di utilizzo dei biomarcatori e delle scansioni per la diagnosi precoce", ha detto Rudy Tanzi, professore di neurologia alla Harvard Medical School e uno dei principali ricercatori di Alzheimer.
Meglio non sapere?
Uno studio continuo della School of Medicine della Washington University di St. Louis non informa i partecipanti del profilo di rischio genetico o dei biomarcatori dell'Alzheimer. Lo studio Washington University Adult Children si propone di studiare questi rischi, ma i ricercatori non credono che sia opportuno dare i risultati individuali ai partecipanti, perché anche i ricercatori non sono del tutto sicuri di quello che significano [tali risultati].
"Questo è uno dei temi scottanti di discussione tra i partecipanti e i ricercatori" alla colazione di lavoro annuale con i partecipanti, ha detto il dottor David Holtzman, neurologo della scuola di medicina. "Abbiamo fatto uno studio l'anno scorso per cercare di determinare il modo migliore di procedere. Dovremmo dare loro (i risultati dei biomarcatrori) o no?" Attualmente la risposta è no.
Tutti i volontari dello studio iniziano lo studio essendo cognitivamente normali, tra i 45 e i 74 anni. I partecipanti sono iscritti in base a due criteri: quelli che hanno almeno un genitore biologico con diagnosi di Alzheimer prima degli 80 anni, e coloro che hanno avuto due genitori che hanno vissuto almeno fino a 70 anni senza sviluppare l'Alzheimer. I ricercatori hanno presentato i risultati più recenti di questo studio alla conferenza della Society for Neuroscience a San Diego lo scorso fine settimana.
Lo studio ha testato il liquido cerebrospinale dei partecipanti nei livelli di amiloide-beta (segno di accumulo di placche nel cervello) e proteine tau (associate ai grovigli neurofibrillari e alla degenerazione neuronale). Hanno anche eseguito un test genetico per lo stato dell'ApoE, il maggiore fattore di rischio genetico per l'Alzheimer. L'idea è quella di seguire i partecipanti nel corso di molti anni, per monitorare i cambiamenti in questi biomarcatori chiave e vedere come variano in relazione allo stato dell'ApoE e dei futuri sintomi cognitivi.
Coerentemente con la loro ipotesi, il ricercatore Courtney Sutphen ed i colleghi hanno scoperto che le persone con almeno una copia di ApoE-4 hanno più probabilità di sviluppare firme biologiche della patologia di Alzheimer, in una fase della vita precedente rispetto a coloro che non hanno alcuna copia di ApoE-4. E' possibile che alcuni cambiamenti nel gruppo di positivi all'ApoE-4 inizino anche prima dei 45 anni, dicono i ricercatori, ma ciò dovrebbe essere testato con partecipanti più giovani.
Ciò non significa che la positività all'ApoE-4 garantisca la formazione precoce di biomarcatori legati all'Alzheimer (amiloide-beta e proteina tau) o che questi biomarcatori garantiscano i sintomi del morbo. Questo spiega in parte perché l'Adult Children Study non divulga i risultati dei biomarcatori ai partecipanti, ha detto Anne Fagan, professore di ricerca del dipartimento di neurologia alla School of Medicine della Washington University. "Forse ancora più importante è la possibilità che se dici a qualcuno che è negativo all'ApoE-4, egli pensa di essere fuori pericolo", ha detto. "Ma non è vero. Molte, molte persone che sono negative all'ApoE-4 acquisiscono la malattia. Quindi conoscere il proprio genotipo in realtà non è clinicamente significativo, a questo punto".
Forse tra cinque o dieci anni, però, se esisterà un farmaco che previene la malattia prima che insorgano i sintomi, allora diventeranno clinicamente rilevanti le informazioni sui biomarcatori, ha detto. Inoltre, conoscere il proprio genotipo ApoE può fornire informazioni riguardo ai tempi di sviluppo di tali patologie.
O si dovrebbe dirlo ora, a qualcuno?
Dall'altra parte, altri ricercatori dicono che dire ai partecipanti allo studio i loro risultati potrebbe dare qualche beneficio. Essi non sono a favore della diffusione del test a tutta la popolazione ma, nel contesto di uno studio, alcuni ricercatori dicono che "la conoscenza può essere potere".
La Dott.ssa Reisa Sperling, professore di neurologia alla Harvard Medical School, è d'accordo che non ci sono abbastanza prove per sostenere il test diffuso dei biomarcatori di Alzheimer. Ma lei sta conducendo una sperimentazione su un farmaco dove dice immediatamente ai partecipanti se la loro PET mostra accumulo di amiloide-beta nel cervello, indicativo di placche. "Per me, ha senso sapere se si ha l'amiloide o no, perché si ha l' opportunità di entrare in un esperimento per cercare di fare qualcosa al riguardo", ha detto.
Lo studio, sponsorizzato dalla Eli Lilly, è chiamato esperimento clinico di prevenzione Anti-Amyloid Treatment in Asymptomatic Alzheimer's Disease, A4 in breve. Questo sarà il primo esperimento a testare un farmaco progettato per eliminare l'amiloide dal cervello nelle persone anziane che non mostrano sintomi dell'Alzheimer, ha detto la Sperling. Il farmaco mostra un "modesto segnale di rallentare il declino cognitivo", nelle persone con demenza lieve in studi di fase 3, secondo la Sperling.
Il reclutamento per questa prossima fase, per persone senza sintomi, inizia il prossimo Dicembre; la Sperling è alla ricerca di 1.000 persone da 65 a 85 anni che partecipano ad una sperimentazione di 39 mesi. Ogni sede dell'esperimento clinico A4 deve identificare e formare qualcuno per discutere i risultati dell'amiloide con i partecipanti prima e dopo averli avuti. Se i volontari sono positivi all'accumulo di amiloide, possono andare avanti a provare il farmaco.
Come si comporteranno le persone?
In definitiva, ciò che serve per prevenire l'Alzheimer è l'equivalente di una statina, che abbassa il colesterolo per prevenire problemi di cuore prima che si verifichino, dice Tanzi dell'Harvard, che sta lavorando anch'egli all'esperimento di un farmaco. Ma in assenza di un metodo di prevenzione provato, è discutibile che chiunque manchi di sintomi cerchi di fare i test dei biomarcatori. "Non sono sicuro che siamo socialmente pronti per la potenza dei biomarcatori", ha detto. "Ma se qualcuno vuole sapere, va bene, dovrà fare i conti con il fatto che non c'è nessuna terapia, ma potrebbe essere disposto a cambiare stile di vita; anche se non ci sono garanzie, potrebbe essere una buona cosa".
Oltre che permettere alle persone a firmare per assumere un farmaco sperimentale, conoscere lo stato dei biomarcatori potrebbe incoraggiare le persone anche a fare scelte di vita sane, dice Tanzi. L'esercizio fisico, la stimolazione intellettuale e una dieta mediterranea - che dà la precedenza a pesce, frutta e verdura - sono collegati a un miglioramento del rischio di demenza. Ma non c'è alcuna garanzia che tutto questo farà rallentare la progressione dell'Alzheimer.
Poichè le persone diventano consapevoli dei biomarcatori di Alzheimer, Tanzi prevede anche la necessità di cambiamenti politici per proteggere la riservatezza di tali informazioni. Ci potrebbe essere una legge per proteggere i biomarcatori, simile alla GINA che proibisce le informazioni genetiche nelle assicurazioni e sul lavoro. Egli vede anche la necessità di "consiglieri per i biomarcatori" per informare le persone su ciò che significano i risultati - e quanta incertezza ci sia sul loro significato - oltre a consulenti psicologici che aiutino le persone che lavorano con questi problemi. "Non funzionerà se non ci saranno abbastanza persone a consigliare scientificamente e psicologicamente", ha detto.
Una spada sopra la testa
Più che altro, il risultato dell'ApoE-4 di Anne Kolesar ha confermato ciò che già sospettava, data la sua storia familiare. Ha anche firmato sull'Alzheimer's Prevention Registry, una comunità online di persone che vogliono sapere, e potenzialmente aderire agli studi di prevenzione.
Durante la partecipazione ad uno studio, le è stato chiesto come fosse influenzata la sua visione del futuro dalla conoscenza di essere positiva all'ApoE-4. Lei ha risposto che se si sentisse il deterioramento da Alzheimer, vorrebbe seriamente considerare il suicidio. "Penso che l'onere più alto sia ovviamente per i vivi. E' con quelli che hanno ancora la capacità, perché hanno un carico emotivo, finanziario e, potenzialmente, fisico", ha detto. "Io non vedo alcun senso nel provocare tale onere, quando non c'è molto che posso fare per me".
Ma la Kolesar dice di sentire la propria mente più limpida in questo momento che negli ultimi 20 anni. Ha dato alla luce il suo figlio a 37 anni, ed è andata "dritta dalla mente in pappa della maternità alla mente in pappa della menopausa". Ora è in pensione, ma non seduta pigramente; ha intenzione di recarsi in Vietnam da sola in Gennaio e sta imparando il vietnamita.
Apprendere nuove lingue è la sua "copertura contro l'Alzheimer", dice, riferendo le ricerche che suggeriscono che tenere la mente attiva potrebbe ritardare l'insorgenza del morbo. Ma il suo ottimismo su questo punto è moderato dal fatto che suo padre faceva le parole crociate. "Quello che trovo terrificante più di ogni altra cosa, è quel periodo quando si inizia a dimenticare le cose, ma si sa ancora chi si è", ha detto. "Come si sentiva lui per questo? Come mi sentirò io, se succede?"
E' una zona nebbiosa del possibile futuro della Kolesar, che la scienza non può ancora dire sia certa.
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Pubblicato da Elizabeth Landau in cnn.com (> English version) - Traduzione di Franco Pellizzari.
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