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Le 5 decisioni più controverse di fronte a un caregiver di Alzheimer

E' ora di smettere di guidare? Secondo il cane, sì.1. Il paziente deve smettere di guidare?

Una sera sul tardi, ero completamente presa dall'elaborazione delle foto che avevo fatto allo zoo di Cincinnati lo stesso giorno, quando sono stata sorpresa dallo squillo del telefono. Ho pensato che forse era Ed, il mio compagno di vita rumeno e anima gemella.


Ma non lo era. Era una voce femminile dolce, che non conoscevo, che mi diceva di aver trovato Ed che guidava sul lato sbagliato della strada. Aveva accostato e così anche lei si era fermata, e vedendo quant'era confuso, le aveva offerto un passaggio a casa. Improvvisamente, mi sono resa conto della verità nuda e cruda: Ed non poteva più guidare in sicurezza. Mi sentii mancare e gli ho detto molto tranquillamente che doveva smettere di guidare.


Prima o poi, la guida diventa un problema per tutte le persone con Alzheimer. Di solito ci sono molti segnali di allarme che  per loro non è più sicuro guidare, e l'Alzheimer's Association ne elenca cinque, quelli primari:

  • Dimenticare di individuare i luoghi familiari
  • Non rispettare i segnali stradali
  • Prendere decisioni lente o sbagliate nel traffico
  • Guidare a velocità non appropriata
  • Arrabbiarsi o confondersi durante la guida

Vorrei aggiungere due elementi ovvi a questa lista: causare un incidente o investire un'altra auto mentre si parcheggia.


Quando ai nostri cari succede uno o più di questi problemi, è il momento di farli smettere di guidare. Questa è una delle azioni più difficili che si dovranno mai prendere. Tutti noi teniamo all'indipendenza che ci consente la guida, per andare quando e dove vogliamo, e le persone con Alzheimer non fanno eccezione.  E' altamente probabile che si dovrà affrontare ogni sorta di resistenza, ma siamo in ultima analisi responsabili di riuscire a far smettere di guidare la persona, in un modo o nell'altro.

 

2. La persona deve essere collocata in una struttura di assistenza a lungo termine?

Mettere una persona cara con Alzheimer in una struttura di assistenza a lungo termine è molto controverso. La stragrande maggioranza delle famiglie non vogliono farlo, e molti si rifiutano perfino di pensare in questi termini. Alcuni sentono che è la cosa più crudele e vergognosa che possono fare al loro caro, anche se hanno accesso a una struttura di alta qualità nelle vicinanze.


Guradando la cosa dall'esterno con maggiore obiettività, tuttavia, diventa chiaro che a volte, il collocamento in casa di cura è la soluzione più amorevole, soprattutto se si lavora a tempo pieno. In alcuni casi, cercare di prendersi cura di una persona con Alzheimer o altra demenza a casa, in realtà la priva della quantità, della qualità e del livello di assistenza e di sicurezza di cui essa ha veramente bisogno. I pazienti di Alzheimer richiedono assistenza e monitoraggio 24 ore al giorno, faticosa per il caregiver. Non si può essere lì per la persona amata e fornire cure di alta qualità, se si è fisicamente sfiniti ed emotivamente esauriti tutto il tempo. E' anche possibile passare così tanto tempo ad occuparsi e preoccuparsi di qualcuno da non essere in grado di godere del tempo trascorso con lui.


Il ricovero in casa di cura dovrebbe essere considerato in particolare per i pazienti nelle ultime fasi della malattia. Questi pazienti hanno un bisogno disperato di molta più assistenza di quanto una singola persona o nucleo familiare - pur con qualche aiuto pagato - sia in grado di fornire. Ci vuole un intero villaggio per assistere le persone nell'ultima fase dell'Alzheimer. Hanno bisogno di medici di assistenza primaria, specialisti, infermieri, assistenti, lavandaie, cuochi, lavapiatti, governanti e uomini di manutenzione. Hanno bisogno di un direttore delle attività, un dietista e un assistente sociale. E hanno bisogno che tutte queste persone siano disponibili in loco o nei turni di guardia 24 ore al giorno, sette giorni alla settimana. In più, hanno bisogno di professionisti esperti al lavoro di notte che possano controllarli quando dormono. Inoltre, coloro che hanno la tendenza a vagare devono essere in un ambiente sicuro dal quale non possono allontanarsi e perdersi.


Così, quando si raggiunge il punto in cui si è fisicamente esausti ed emotivamente vuoti per la maggior parte del tempo, fermarsi e considere seriamente la collocazione della persona amata in una struttura di assistenza a lungo termine di alta qualità. Non è una scappatoia. Potrebbe essere di gran lunga la cosa più amorevole da fare, e la linea di condotta migliore, per la salute e il benessere della persona amata.

 

3. E' giusto smettere di visitare la persona quando non ci riconosce più?

Alcune persone pensano che non c'è più alcun motivo di visitare una persona cara in una casa di cura che non li riconosce più, ma altri sono fermamente convinti che va visitata comunque. Prima di tutto, le persone con Alzheimer possono avere piacere di essere visitate anche se non sanno più chi li sta visitando. Ancora più importante, è possibile che la persona ti riconosca, ma semplicemente non sia in grado di dirtelo.


Non sapremo mai chi riconosce da qualche parte nel profondo un malato di Alzheimer. Anche se non c'è modo di saperlo per certo, molte persone credono che la persona sia veramente "lì dentro" da qualche parte, e che dobbiamo sempre presumere che possa riconoscere e sentire più di quanto possa esprimere.

 

4. E' giusto divorziare da un coniuge che è in una fase avanzata della malattia?

Nel settembre 2011, Pat Robertson ha provocato una terremoto, quando ha detto che andava bene divorziare da un coniuge con l'Alzheimer. Un articolo dell'Huffington Post ha citato Robertson che diceva: "So che può sembrare crudele, ma se il marito dovesse fare qualcosa, dovrebbe divorziare da lei e ricominciare tutto da capo, non senza assicurarsi che lei abbia una'assistenza di custodia e qualcuno che se ne occupa". Centinaia di agenzie di stampa hanno costruito storie sulla dichiarazione di Robertson. Sull'Huffington Post da solo, 2.245 persone hanno postato commenti, la maggior parte dei quali erano negativi. Un lettore ha scritto semplicemente: "Pat Robertson rappresenta più il male che il bene".


Anche il sito Alzheimer's Reading Room, una delle principali fonti di notizie per i caregiver di Alzheimer, ha pubblicato diversi articoli su questa storia, anch'essi in maggioranza negativi. Le risposte sono state ben riassunte da un lettore che ha dichiarato: "Mi piacerebbe sapere quale bibbia sta leggendo il Rev. Pat Robertson. Il nostro Dio dice <nella salute e nella malattia>. E anche <nel bene e nel male>". Questa è davvero una decisione molto personale e legata ai propri principi etici personali.

 

5. E' tempo di Hospice?

L'hospice [=cure palliative di fine vita] può essere di grande valore per il benessere dei pazienti a fine vita, per le persone con condizioni terminali (e le loro famiglie), comprese quelle con Alzheimer.

Gregg Warshaw, MD, Direttore della Medicina Geriatrica all'Università di Cincinnati ed ex Presidente dell'American Geriatric Society, di recente mi ha detto: "Considerare l'hospice se la persona è in uno stadio avanzato della malattia. Nell'Alzheimer avanzato il paziente non è in grado di camminare per vestirsi o fare il bagno senza aiuto; ha difficoltà a controllare l'urina e/o le funzioni intestinali, e solo raramente dice frasi significative". Quando ho chiesto il dottor Warshaw i segnali specifici che indicano che l'hospice può essere necessario, egli ha elencato i seguenti:

  • due o più episodi di polmonite o altre infezioni gravi durante i sei mesi precedenti;
  • difficoltà a mangiare e deglutire, anche con l'imboccamento, che porta ad una perdita di peso (10% nei 6 mesi precedenti);
  • una o più ulcere da pressione della pelle che non guariscono.


Quando la malattia di Ed progrediva, un mio amico mi ha suggerito di pensare all'hospice. Mi ha colpito. La semplice parola mi ha spaventato. Anche se il medico di Ed affermava che ne aveva i requisiti (il che significa che probabilmente aveva meno di sei mesi di vita), ho continuato a rimandare. Continuavo a ripetermi che non era ancora pronto per questo. Il vero problema era che io non ero ancora pronta per questo. Sapevo che era stupido, ma in qualche modo, sentivo che la firma dei documenti equivaleva a firmare la sua condanna a morte. In fondo, pensavo che sarebbe vissuto più a lungo, se non lo portavo all'hospice. Negavo profondamente il suo stato di salute.


Poi, un giorno, ho parlato con Douglas Smucker, MD, professore associato di Medicina di Famiglia all'Università di Cincinnati, specializzato in cure di fine-vita. Ha risposto a tutte le mie domande circa l'hospice. Poi mi ha guardato gentilmente e mi ha detto che la vera domanda da fare al caregiver è: "Come posso aiutare questa persona ad avere la qualità di vita più alta possibile nel tempo che rimane?".


Questo mi ha fatto cambiare idea. Ho spostato l'attenzione dall'imminente morte di Ed alla qualità della sua vita residua. Ho firmato le carte dell'hospice ed ho trascorso i suoi ultimi mesi facendo tutto quello che mi veniva in mente per portare piacere ad Ed. Abbiamo poi avuto una bellissima e tranquilla conclusione dei 30 anni di vita insieme.

 

 

 

 

 


Scritto da Marie Marley, ex-caregiver e scrittrice

Pubblicato in The Huffington Post (> English version) - Traduzione di Franco Pellizzari.

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