Sette anni fa, quando a mia nonna JoAnn è stato diagnosticato l'Alzheimer, la notizia mi ha fatto entrare in una spirale di paura e tristezza.
Nella mia famiglia frammentata del Sud, JoAnn era stata più che la mia nonna. La zia Mame della mia infanzia in Texas, mi ha insegnato che la felicità richiede un gran farsi beffe delle convenzioni.
Quando avevo 4 anni, durante una gita pomeridiana al museo d'arte, mi ha detto di passare le mie dita lungo le pennellate di un Van Gogh particolarmente stupefacente: " 'Ci potrebbero buttare fuori di qui a calci, caro', ha sussurrato nel mio piccolo impressionabile orecchio, 'ma non sarà mai che non hai toccato quel quadro' ". E' stata una lezione di vita, anche se non appropriata. Senza quell'esempio scandaloso di JoAnn, non sono sicuro che avrei avuto il coraggio di trasferirmi a Manhattan, di uscire allo scoperto, o ironicamente, di accompagnarla negli ultimi anni della sua vita. Non sapevo che, anche dopo aver avuto la diagnosi di Alzheimer, mia nonna aveva solo cominciato a educarmi.
"La cosa meravigliosa dell'Alzheimer", ha scherzato una volta dopo la sua diagnosi, "è che si vive sempre nel momento". Questo batttuta era destinata a nascondere la sua frustrazione per aver dimenticato la frase mordente di uno dei suoi aneddoti caratteristici. Ma era, comunque, tutto vero. Attraverso la nebbia del nostro dolore, io e mio nonno Alfred, abbiamo cominciato a notare che, insieme con i suoi ricordi, stavano scomparendo i rancori, i sentimenti feriti, le preoccupazioni e i rimpianti di JoAnn. In effetti, entro l'anno, sembrava più felice che mai, più presente e in pace. Come Re Lear, con la perdita della ragione, JoAnn ha acquisito chiarezza. E, come per Re Lear, la sua demenza le ha dato la possibilità di incontrare la sua figlia estranea, mia madre, di nuovo per la prima volta. Il loro conflitto cronico era stato tra i grandi dolori della mia vita; ma improvvisamente il passato è stato, letteralmente, dimenticato.
Così spesso sento la gente dire che preferirebbero morire piuttosto che avere l'Alzheimer. Questo è, in parte, perché credono che la malattia li costringerà ad abbandonarsi all'oblio. Ma mia nonna mi ha dimostrato che siamo più che la somma dei nostri ricordi. Mi ha insegnato l'importanza vitale di dimenticare, e che a volte è solo il nostro impegno a ricordare che ci impedisce di accettare l'amore e la pace che ci circonda.
Rispetto alla generazione passata, il nostro paese ha vissuto una rivoluzione nel nostro modo di pensare ai bambini con autismo e altre condizioni di sviluppo. Oggi sappiamo che, lungi dall'essere "difettosi" o "ritardati", questi bambini sono solamente diversi, vantando le proprie forze e talenti. Lo stigma, una volta associato con la loro realtà, è stato esposto come pregiudizio, un'altra conseguenza terribile dell'applicazione di un unico standard arbitrario all'infinita varietà dell'umanità. Purtroppo, però, dobbiamo ancora offrire questo tipo di comprensione compassionevole alle persone con Alzheimer. Questa comunità, spesso considerata "indebolita" o "senile", pur con la sua sapienza e intelligenza, continua ad essere esclusa.
Sento di continuo i benpensanti, gente illuminata, che non penserebbero mai di etichettare un bambino "ritardato", descrivere le persone con Alzheimer come "essersi perduti", come "già andati", o anche, come membri dei "morti viventi". Infatti, i bambini di tutte le fasi e capacità di sviluppo, sono considerati perfettamente dove sono nella vita. Poche persone, per esempio, considerano patetico un bambino piccolo che non riesce a vestirsi o ad andare al bagno da solo. Ma in qualche modo, compatiamo gli anziani che perdono alcune delle abilità nel processo naturale di invecchiamento. Le scuole dell'infanzia sono stimolanti, allegre, luoghi colorati, mentre molte case di cura assomigliano ancora a orfanotrofi dickensiani, ambienti che, se si sostituiscono gli ospiti con altri giovanissimi, sarebbero chiusi per motivi di disumanità.
Ci si rende conto che la nostra valutazione dei bambini è in qualche modo basata, non sul rispetto per la fase di vita che attualmente occupano, ma sul loro futuro, come adulti produttori di reddito. Per gli anziani, dopo aver esaurito la loro "utilità", è come se la vicinanza alla morte renda in qualche modo meno importante la qualità della loro vita. L'America [ndt: e in Italia?], a quanto pare, non è un paese per vecchi, e (le mie scuse a Yeats), di sicuro non è neanche un paese per donne anziane.
Ironia della sorte, come mia nonna mi ha indotto a realizzare, essere "nonna" è praticamente l'unico ruolo onorato a disposizione delle donne over 65. Quegli anziani celebrati, come la divina Betty White, sono le eccezioni che confermano la regola: i Shirley Temple del set per anziani, questi "precoci" anziani sono ricompensati per continuare ad esporre le caratteristiche della mezza età, piuttosto che della vecchiaia. "Hanno ancora la testa", si dice di loro, "ancora tagliente come sempre".
Direi che, data la nostra popolazione e l'epidemia di Alzheimer, è essenziale che rivalutiamo il nostro pensiero circa gli anziani e la demenza in vecchiaia. Certo, una grande quantità di dolore e di disagio può accompagnare il terzo atto della vita (come, del resto, uno qualsiasi dei suoi atti). Ma ciò che ho imparato dal viaggio di mia nonna nell'Alzheimer era che il mio dolore per quanto riguarda la sua condizione aveva in gran parte a che fare con la mia incapacità di accettare il cambiamento che stava subendo.
Indipendentemente da come mi sono sentito a questo proposito, il cambiamento di JoAnn era reale. Ciò che se n'era andato in lei non mancava. E più compiutamente l'ho capito, più sono stato in grado di essere presente durante i suoi ultimi anni. In quella lotta per essere presente, per apprezzare ogni minuto passato a farla "camminare verso il cancello del giardino", come si dice laggiù in Texas, JoAnn era ancora una volta il mio esempio. Come in quel lontano pomeriggio al museo d'arte di Houston, stava ancora guidando la mia mano.
Robert Leleux è l'autore di "The Living End: A Memoir of Forgetting and Forgiving", da St. Martin Press.
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Pubblicato in NewYorkTimes il 16 febbraio 2012 - Traduzione di Franco Pellizzari. Grafica di apertura di Keith Negley
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