Il mio nonno 93enne ha avuto di recente la diagnosi di demenza di Alzheimer. Aveva vissuto per conto suo da quando mia nonna è morta molti anni fa, e era diventato sempre più confuso e smemorato, dimenticando perfino di mangiare i pasti preparati per lui.
Fisicamente era molto in forma ed era abituato a fare una passeggiata quotidiana di 5 km, ma quando si è perso su questo tragitto familiare, è arrivato il momento di entrare in una struttura di assistenza per anziani.
Dopo essersi trasferito lì, ha avuto un declino rapido, diventando sempre più paranoico e aggressivo, caratteristiche completamente estranee al suo carattere. Ha tentato ripetutamente di fuggire dalla struttura e delirava di combattere in una battaglia medievale. Questo ha raggiunto il picco la sera in cui ha demolito tutta la sua camera da letto, fracassando una sedia sulla finestra con una rabbia terribile.
Dopo essersi calmato, ha parlato della necessità di prepararsi per la festa della celebrazione del suo imminente matrimonio con una “vera bellezza”. Mio padre descriveva “strazianti” le telefonate con mio nonno e riteneva che fossero “rimasti solo frammenti di lui ora”.
Nel mio lavoro come neuropsicologa clinica ho visto centinaia di persone con demenza, ma in genere nelle prime fasi, quando si trovano ad affrontare la diagnosi. Avere la conoscenza neuropsicologica è stata sia una spada che uno scudo, quando la demenza ha colpito all'interno della mia famiglia. Conoscevo i fatti dei sintomi, ma non avevo mai sperimentato la realtà devastante di come quei sintomi possono trasformare interamente la persona che conosci, anche se temporaneamente.
Era straziante sapere che il mio nonno dolce, fragile e creativo era così spaventato e convinto nella sua mente della minaccia da arrivare a demolire la camera da letto. Ho uno dei suoi paesaggi dipinti nel mio ufficio, e ricordo di averlo fissato a lungo dopo aver saputo di questo incidente.
Con l'aiuto di farmaci, la paranoia e l'aggressività di mio nonno ora si sono sistemate. Ha un rinnovato senso di scopo. Egli crede di gestire la sua attività di progettazione che aveva attorno ai trent'anni, e che la casa di cura sia il suo ufficio. Ogni volta che mio padre lo chiama, parla di quanto è occupato, e che deve partecipare a una riunione importante.
Non vedo questo come una perdita di sé. Piuttosto, è una forma di auto-conservazione. Lui è tornato a un momento della vita in cui aveva uno scopo e prosperava nel gestire una propria attività di successo. Anche se è una forma più giovane di sé stesso, è ancora lui. Dimostra che capisce ancora chi è. La sua immagine di sé è intatta.
Avevo letto di casi di auto-immagine mantenuta, ma superata, nelle persone con demenza di Alzheimer. Steven Sabat (2018) ha descritto il 'Dr B', un professore in pensione che continuava a riferirsi a se stesso come scienziato ed era orgoglioso in questo ruolo nella sua struttura di assistenza per anziani, certo che gli altri riconoscevano e apprezzavano il suo 'lavoro' di partecipazione alla ricerca di Sabat. Sabat si è chiesto: “le persone ... con demenza hanno bisogno e vogliono scopo nella vita? Hanno un senso di giusto orgoglio e rispetto di sé?”. Lui risponde, con enfasi, “sì, sicuramente è così”.
Oliver Sacks (2019) ha scritto di ‘Mr. Q’, un ex custode che continuava a rappresentare questo ruolo nella sua casa di cura gestita dalle Piccole Sorelle dei Poveri. Controllava che porte e finestre fossero chiuse, e ispezionava i locali lavanderia e caldaia. Le sorelle rispettavano e rafforzavano la sua identità assistendolo in questo ruolo. Gli avevano dato alcune chiavi di determinati armadi e lo incoraggiavano a chiuderli di notte.
Sacks ha dichiarato: “Dovremmo aver detto a Mr. Q. che non era più custode, ma paziente declinante e demente in una casa di cura? Dovremmo aver portato via l'identità a cui era abituato e allenato, e averla sostituita con una “realtà” che, pur reale per noi, sarebbe stata priva di significato per lui? Farlo sembrava non solo inutile, ma crudele, e potrebbe aver accelerato il suo declino”.
I casi di Sabat e Sacks, e mio nonno, dimostrano che ci sono aspetti del nostro sé che persistono a fronte della demenza di Alzheimer. L'ipotesi che ci sia un riduzione o ‘perdita’ del sé che accompagna il deficit di memoria, non riesce a considerare che siamo fatti più che dei nostri ricordi. Ci sono altri aspetti del sé che sono cruciali per quello che siamo, come i nostri rapporti con gli altri (sé ‘interpersonale’) e i tratti morali, incluso l'orgoglio per il nostro lavoro, entrambi legati all'immagine di sé.
Matthews ha messo in evidenza che la nostra auto-immagine contiene valutazioni del sé, comprese valutazioni morali che sono modulate dagli scambi interpersonali. L'immagine persistente di sé nelle persone con demenza di Alzheimer continua ad essere sensibile alla ricompensa e al danno nei contesti sociali. Matthews afferma che “quelli con profonda perdita di memoria episodica, spesso non perdono il loro sé inteso come oggetto di orgoglio e di scopo, e come fonte di significatività”.
Per il mio nonno, la sua attività di ingegneria fornisce questo senso di orgoglio, scopo e significatività, di cui ha bisogno per mantenere la sua immagine di sé.
Se una persona con demenza di Alzheimer ha un certo ruolo o identità che rappresenta, rispettare quel ruolo sembra cruciale nel sostenere e mantenere il suo sé, anche se si tratta del suo ruolo di decenni prima. Sono d'accordo con Sacks che insistere che affrontino la tragica realtà della demenza, strappando quel ruolo, servirebbe solo a devastare la loro immagine di sé, e ad accelerare il loro inevitabile declino.
C'è già abbastanza devastazione nella demenza, per cui è importante celebrare quello che rimane, anche se questo significa riconoscere un ruolo passato nel presente, che si tratti di custode o ingegnere. Sono certamente più sollevata nel sentire storie di contentezza di mio nonno nel suo ufficio occupato, piuttosto che le sue abilità di combattimento medievale.
Fonte: Amee Baird PhD, neuropsicologa clinica e ricercatrice di sesso, musica e memoria nelle condizioni neurologiche.
Pubblicato su Psychology Today (> English text) - Traduzione di Franco Pellizzari.
Referenze:
- Baird, A. (2019). ‘A reflection on the complexity of the self in severe dementia.’ Cogent Psychology, 6: 1-5.
- Matthews, S. (in press). Moral self-orientation in Alzheimer’s Dementia, Kennedy Institute Ethics Journal
- Sabat, Steven R. (2018). Alzheimer’s Disease and Dementia: what everyone needs to know. New York: Oxford University Press.
- Sacks, Oliver. (2019). ‘How much a dementia patient needs to know: should a doctor replace an accustomed identity with a meaningless “reality”?’. The New Yorker (March 2019 issue).
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