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"Rimanere grati, anche nella tristezza"

Mia figlia di otto anni adora guardare le foto con me.

Stavamo sfogliando migliaia di nostre immagini digitali sul computer, quando vide una foto con mio padre, mia madre, e me stessa in posa davanti a un lago ghiacciato durante un viaggio di Natale al Nord diversi anni fa.


"Questo è il nonno, senza la sua malattia" ha commentato, in tono serio. Feci una pausa. Come figlia di un paziente di Alzheimer ad esordio precoce, a cui è stato diagnosticato nel fiore degli anni, alla giovane età di 63 anni, non sono abituata a tali osservazioni schiette da mia figlia maggiore.


Dal momento che era abbastanza grande da capire, non ho mai evitato di parlarle della malattia, perché il nonno agiva a volte in modo diverso, o quello che questa malattia avrebbe finito per significare per noi come famiglia. A causa della mia schiettezza, non si sono mai sentite a disagio vicini a mio padre, né timorose di fare domande sui cambiamenti che esse possono percepire in mio padre da una visita all'altra. Eppure, come spesso accade a me quando penso a mio padre e all'ingiustizia totale che c'è nella vita, che ha eliminato uno che ha servito lo stato per tutta la vita, devoto, brillante, che mirava sempre in alto, padre attento e amorevole e amico, mi sono permessa di pensare a cosa avrebbe potuto essere.


Come ex atleta egli stesso, che ha allenato la mia squadra di pallacanestro per anni, si avrebbe compiaciuto dell'atletismo di mia figlia. Si sarebbe interessato ai suoi giochi e risultati, così come a quelli delle mie figlie più giovani. Mi avrebbe parlato del mio lavoro e dei casi in cui sono coinvolta, e avrebbe trovato piacere a chiedere difficili questioni giuridiche. Avremmo discusso del ciclo delle prossime elezioni, proprio come abbiamo fatto in misura più limitata nel 2008. Lui e mia madre avrebbero continuato ad essere una squadra amorevole con reciproco sostegno. E avrebbe continuato a viaggiare per visitare noi e i restanti posti nel mondo che aveva il suo "listino di borsa".


Mia figlia ha visto la tristezza nei miei occhi e il suo viso si è irritato. "Non è giusto, mamma", ha detto, riecheggiando i miei pensieri. "Perché ha dovuto avere questa malattia? Perché ha dovuto ammalarsi? Perché non ho potuto conosciere un nonno senza Alzheimer?". L'ho abbracciata stretta continuando a guardare le immagini perché, ovviamente, non avevo alcuna risposta. O nessuna che avresse potuto dare un qualsiasi conforto.


Continuando a girare le foto, ho segnalato le foto che lei aveva con suo nonno dopo la diagnosi. Immagini di Natale, di Pasqua, delle estati gustate al cottage in Michigan, del tempo trascorso insieme in spiaggia, delle passeggiate fatte insieme, dei giochi nel parco. Mi sono ricordata che una cara amica e consigliere, la cui madre ha combattuto per anni l'Alzheimer, una volta mi ha dato consigli molto preziosi. Ha detto che la cosa peggiore da fare, come membro della famiglia del malato di Alzheimer, è pensare a quello che avrebbe potuto essere e che, invece, si dovrebbe godere la persona che è, anche con la malattia.


Mentre guardavo queste immagini, mi sono ricordata che, nonostante la malattia, mio padre è stato incredibilmente servizievole, sensibile, premuroso e divertente con le mie tre figlie. C'erano foto di lui che spingeva il dondolo della più piccola a tre mesi di età, entrambi con un sorriso per la macchina fotografica. C'era una foto di lui che ballava la musica proveniente da un biglietto di auguri con quella di tre anni. Un'altra istantanea di lui che tratteneva mia figlia di otto anni sorridente, i loro volti premuti strettamente uno all'altro.


Nell'insieme dipingono davvero il ritratto di quello che ho conosciuto come vero per tutto il tempo in cui le mie tre figlie sono cresciute negli ultimi anni: che, nonostante la malattia, è stato un nonno paziente, dolce, amorevole, maestro, ancora in grado di leggere loro delle storie, fare passeggiate e vacanze, e sì, gridare e giocare a calcio. Che è più di quello che la maggior parte delle persone, con o senza Alzheimer, possono dire di aver fatto.


Con tutto questo in mente, mi sono rivolta a mia figlia: "Sai, tesoro, nonno ti ha sempre amato ed è stato fiero di te. E la malattia non cambia ciò". Lei annuì. "Lo so", ha risposto. "Ma comunque mi piacerebbe che ci fosse un mondo senza l'Alzheimer". Lo vogliamo tutti. Ma fino a quando non lo possiamo avere, è bene ricordare quello che abbiamo adesso.

 

 

 

 

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Scritto da Jennifer Leigh Blackwell, procuratore federale e madre di tre figli. E' la figlia di Bob e Carol Blackwell, la cui storia è stata tratteggiata in USA Today in una serie di articoli. A suo padre è stato diagnosticato l'Alzheimer ad esordio precoce nel 2006. E' originaria del Nord Virginia, ma ora risiede nel sud-est del Michigan.

Pubblicato
in Alzheimer's Reading Room il 23 Aprile 2012 - Traduzione di Franco Pellizzari.

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