Sono passati più di cento anni da quando è stato diagnosticato il primo caso di Alzheimer. Da allora abbiamo imparato molto su 'grovigli' e 'placche' di proteine che causano la malattia. Quanto sono vicini dei trattamenti efficaci, e potremmo anche prevenire l'insorgere della demenza?
Potresti aver sentito parlare dello 'tsunami di demenza'; è davanti a noi. Con l'invecchiamento della popolazione, il numero dei casi di demenza è destinato a schizzare in alto, travolgendo i nostri servizi sanitari e pesando in modo abnorme sulla nostra società.
E' solo che non è così semplice.
Uno studio pubblicato l'anno scorso dalla prof.ssa Carol Brayne del Cambridge Institute of Public Health suggeriva che standard migliori di istruzione e di vita implicano che le persone hanno un rischio minore di sviluppare la malattia di quanto si pensasse e così, nonostante l'invecchiamento della popolazione, i numeri hanno probabilità di stabilizzarsi, e forse potrebbero anche calare un po'.
Naturalmente, anche una visione così ottimistica non nasconde il fatto che ogni anno milioni di persone in tutto il mondo avranno la diagnosi di demenza e che milioni vivono già con la malattia. Un trattamento efficace per il 'ladro della memoria' sembra ancora una prospettiva lontana. "La demenza non è una malattia: è una costellazione di cambiamenti nel cervello di un individuo, con molte cause", dice la Brayne. "La maggior parte delle persone, nel momento in cui arrivano a 80/90 anni, hanno alcuni di questi cambiamenti nel cervello, a prescindere dal fatto che sviluppino o meno la demenza".
Per questo motivo, la Brayne ritiene che abbiamo bisogno di un approccio radicale per affrontare la salute del cervello durante tutta la nostra vita, con una maggiore enfasi sulla riduzione del rischio di demenza conseguita attraverso misure nella società legate a una migliore salute in generale, come ad esempio cambiamenti sociali e dello stile di vita, oltre a focalizzarci su approcci terapeutici precoci per prevenire o curare la malattia attraverso un approccio farmaceutico.
L'Alzheimer è di gran lunga la forma più comune e nota di demenza. I sintomi includono problemi di memoria, cambiamenti nel comportamento e perdita progressiva di indipendenza. A livello biologico, la malattia vede un accumulo di due particolari tipi di proteine nel cervello: frammenti di amiloide-beta si raggruppano insieme in 'placche' tra le cellule nervose, e fili ritorti di tau formano 'grovigli' all'interno delle cellule nervose. Queste placche e grovigli portano alla morte delle cellule nervose, causando il restringimento del cervello.
Gli studi clinici di farmaci di Alzheimer saranno sempre difficili, in parte perché chi partecipa alla sperimentazione ha la malattia in stadio avanzato, e ha già perso un numero significativo di cellule nervose. Ma il professor Chris Dobson della Cambridge University ritiene che la maggior parte degli studi fatti fino ad oggi erano destinati a fallire fin dall'inizio a causa di una fondamentale mancanza di comprensione dei meccanismi che portano alla malattia.
La maggior parte dei ricercatori che affrontano l'Alzheimer approcciano comprensibilmente la malattia come problema clinico, o per lo meno biologico. Dobson la vede invece anche come chimica e fisica. Egli sostiene che i grovigli e placche di proteine, chiamate nell'insieme «aggregati», stanno dimostrando una proprietà fisica simile al modo di precipitare dei cristalli, diciamo, dall'acqua salata: tutti quello di cui hanno bisogno è un 'seme' per dare il via alla precipitazione e il processo si dipana da se stesso. "In sostanza", dice, "la biologia sta cercando di sopprimere le molecole che si comportano in modo fisico". Per i suoi contributi, Dobson ha avuto il Premio Heineken 2014 per Biochimica e Biofisica.
Nel 2009, Dobson, insieme con i colleghi professori Tuomas Knowles e Michele Vendruscolo, ha pubblicato uno studio che ha scomposto il processo di aggregazione in una combinazione di piccole fasi, ognuna delle quali è stata testata sperimentalmente. Al team è stato evidente che i farmaci stavano fallendo negli esperimenti perché prendevano di mira le fasi sbagliate. "E questo sta ancora accadendo", dice Vendruscolo. "Le aziende stanno ancora mettendo piccole molecole negli studi clinici che, quando le testiamo con i nostri metodi, vediamo che non hanno alcuna possibilità".
Essi credono che le 'neurostatine' possano avere un ruolo, potrebbero fare per l'Alzheimer quello che le statine già fanno per ridurre i livelli di colesterolo e prevenire gli attacchi di cuore e ictus. In realtà, è possibile che abbiano già identificato i composti che potrebbero fare al caso.
Il professor Michel Goedert dal Medical Research Council Laboratory of Molecular Biology ammette che c'è un divario tra la comprensione dell'Alzheimer e la capacità di trasformarla in terapie efficaci: "Sappiamo molto sulle cause delle forme ereditarie dell'Alzheimer, ma questa conoscenza non ha finora portato ad alcuna terapia. E' chiaro ora che l'aggregazione anomala di proteine è centrale per l'Alzheimer, ma non sappiamo i meccanismi con cui questa aggregazione conduce alla neurodegenerazione".
Goedert stesso ha avuto un ruolo determinante negli studi che hanno implicato l'aggregazione di proteine tau nell'Alzheimer e in altre malattie neurodegenerative, lavoro che l'ha portato a ricevere l'European Grand Prix 2014 dalla parigina Foundation for Research on Alzheimer’s Disease. "Non credo che dovremmo parlare di cura", dice Goedert. "Nella migliore delle ipotesi, riusciremo a fermare la malattia. La prevenzione sarà molto più importante". Una parte del problema, dice, sta nel fatto che non c'è assolutamente modo di identificare i soggetti a rischio di Alzheimer.
Il mercato dei farmaci di Alzheimer è massiccio, il motivo per cui le aziende farmaceutiche fanno a gara per sviluppare nuovi farmaci. Goedert non crede che ci sarà mai un singolo 'proiettile magico', ma sarà necessario usare terapie combinate (come trattiamo altre malattie, come l'HIV), dove ciascun farmaco mira un aspetto particolare della malattia.
Il professor David Rubinsztein dell'Institute for Medical Research di Cambridge è d'accordo con Goedert, che dobbiamo capire come prevenire l'Alzheimer, piuttosto che concentrarsi solo sul trattamento della malattia. Anche lui crede nel concetto di neurostatine: "Questi composti sarebbero sicuri, ben tollerati dalla maggior parte delle persone e generalmente benefici; li si potrebbe prendere per molti anni prima della comparsa della malattia. In questo caso non avremmo bisogno di preoccuparci di identificare le persone con un rischio più alto di malattia; tutti potrebbero prenderli".
Rubinsztein è la guida accademica del nuovo Alzheimer’s Research UK Drug Discovery Institute di Cambridge, finanziato dalla Drug Discovery Alliance che comprende anche l'Università di Oxford e l'University College di Londra. Questo istituto di avanguardia potrà accelerate lo sviluppo di nuovi trattamenti per l'Alzheimer e altre malattie neurodegenerative. In particolare, l'Alleanza esaminerà bersagli farmacologici promettenti, valuterà la loro validità e svilupperà piccole molecole che li colpiscono. Questi potrebbero poi essere ripresi da aziende farmaceutiche per la sperimentazione clinica, eliminando una parte del rischio che in seguito diventa fallimento nella maggior parte dei cosiddetti farmaci candidati 'promettenti'.
Rubinsztein è ottimista sulle possibilità di combattere l'Alzheimer: "Se si potesse ritardare l'insorgenza del morbo anche di 3/5 anni, quella scoperta sarebbe di trasformazione e in grado di ridurre massicciamente il numero di persone che lo contraggono. Non stiamo chiedendo di fermare la malattia, solo di ritardarla. Non stiamo chiedendo la luna".
Fonte: University of Cambridge (> English text) - Traduzione di Franco Pellizzari.
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