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Le cellule gliali aiutano a memorizzare il percorso

place cell with dendrites ble and astrocytes yellow

Nel cervello abbiamo due tipi fondamentalmente diversi di cellule: neuroni e cellule gliali. Queste ultime, ad esempio, isolano il 'cablaggio' delle cellule nervose o ne garantiscono condizioni ottimali di lavoro. Un nuovo studio condotto all'Università di Bonn, in collaborazione con il Centro Tedesco Malattie Neurodegenerative (DZNE), e pubblicato su Nature Communications, ha ora scoperto un'altra funzione nei roditori: un certo tipo di cellula gliale ha un ruolo importante nell'apprendimento spaziale.


Ogni luogo fisico ha numerose caratteristiche che lo distinguono e lo rendono inconfondibile nel suo insieme: un albero nodoso, un ruscello borbottante alla fonte, fiori di campo profumati nel prato dietro. Quando visitiamo un posto per la prima volta, archiviamo questa combinazione di caratteristiche. Quando incontriamo l'interazione tra albero, ruscello e prato di fiori selvatici un'altra volta, il nostro cervello lo riconosce: ricordiamo di essere stati lì prima.


Ciò è reso possibile da meccanismi come la cosiddetta integrazione dendritica dell'attività sinaptica, come spiega il prof. dott. Christian Henneberger dell'Institute of Cellular Neuroscience dell'Ospedale Universitario di Bonn:

"Siamo riusciti a dimostrare che le cosiddette cellule astrogliali, o astrociti, svolgono un ruolo essenziale in questa integrazione. Esse regolano la sensibilità dei neuroni a una combinazione specifica di caratteristiche".

 

Un milione di cellule nel cervello di topo

Nel loro studio sui roditori, i ricercatori hanno esaminato da vicino i neuroni nell'ippocampo, una regione nel cervello che ha un ruolo centrale nei processi di memoria. Ciò è particolarmente vero per la memoria spaziale:

"Nell'ippocampo, ci sono neuroni specializzati proprio in questo: le cellule di posizione", afferma Henneberger. "C'è circa un milione di queste cellule di posizione solo nell'ippocampo di topo. Ognuna risponde a una combinazione specifica di caratteristiche ambientali".


Le cellule di posizione hanno lunghe estensioni, i dendriti. Questi sono ramificati come la chioma di un albero e punteggiati con numerosi punti di contatto. Le informazioni che i nostri sensi ci trasmettono su una posizione arrivano qui. Questi contatti sono chiamati sinapsi.


"Quando i segnali arrivano contemporaneamente a molte sinapsi vicine, c'è un forte impulso di tensione nel dendrite, il cosiddetto picco dendritico"
, spiega la dott.ssa Kirsten Bohmbach, che ha condotto la maggior parte degli esperimenti dello studio. "Questo processo è ciò che chiamiamo integrazione dendritica: il picco si verifica solo quando un numero sufficiente di sinapsi è attivo contemporaneamente. Tali picchi viaggiano verso il corpo cellulare, dove possono innescare un altro impulso di tensione, il potenziale d'azione [o 'sparo']".

 

Cellule di posizione in modalità attenzione

Le cellule di posizione generano potenziali d'azione a intervalli regolari. La velocità con cui lo fanno può variare ampiamente. Tuttavia, quando i topi si orientano in un nuovo ambiente, le loro cellule di posizione oscillano sempre a un ritmo particolare, quindi generano da 5 a 10 impulsi di tensione al secondo.


Questo ritmo fa sì che le cellule nervose rilascino determinate sostanze messaggere. Ed è qui che entrano in ballo gli astrociti: hanno sensori ai quali si attaccano queste sostanze messaggere e a loro volta rilasciano una sostanza chiamata D-serina:

"La D-Serina migra quindi sui dendriti delle cellule di posizione", spiega la Bohmbach. "Lì, essa assicura che i picchi dendritici possano svilupparsi più facilmente e anche con molta più forza".


Quando i topi sono in modalità di orientamento, ciò rende più facile per loro archiviare e riconoscere nuove posizioni. È come un tassista che si concentra sulla navigazione nel centro della città e memorizza luoghi mutevoli. Anche il passeggero guarda la strada, ma i suoi pensieri sono altrove e nota meno (tuttavia, ci sono anche processi abbastanza diversi coinvolti in tali fenomeni di attenzione).


"Se nei topi inibiamo l'assistenza fornita dagli astrociti, è meno probabile che riconoscano luoghi familiari",
afferma Henneberger. "Tuttavia, ciò non si applica a luoghi particolarmente rilevanti, ad esempio perché rappresentano un potenziale pericolo: questi continuano a essere evitati dagli animali. Il meccanismo che abbiamo scoperto controlla quindi la soglia in cui le informazioni sulla posizione vengono archiviate o riconosciute".


I risultati forniscono una nuova visione di come la memoria funziona ed è controllata. A medio termine, possono anche aiutare a rispondere alla domanda su come si sviluppano determinate forme di disturbi della memoria.


Henneberger evidenzia che i risultati della ricerca sono espressione di una fruttuosa cooperazione inter-università:

"Non sarebbero stati possibili senza l'intensa collaborazione con il laboratorio del prof. dott. Heinz Beck dell'Institute of Experimental Epileptology and Cognitive Sciences e, in particolare, dei suoi colleghi dott. Nicola Masala e dott. Thoralf Opitz".

 

 

 


Fonte: University of Bonn (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.

Riferimenti: K Bohmbach, ...[+7], C Henneberger. An astrocytic signaling loop for frequency-dependent control of dendritic integration and spatial learning. Nature Communications, 2022, DOI

Copyright: Tutti i diritti di testi o marchi inclusi nell'articolo sono riservati ai rispettivi proprietari.

Liberatoria: Questo articolo non propone terapie o diete; per qualsiasi modifica della propria cura o regime alimentare si consiglia di rivolgersi a un medico o dietologo. Il contenuto non rappresenta necessariamente l'opinione dell'Associazione Alzheimer OdV di Riese Pio X ma solo quella dell'autore citato come "Fonte". I siti terzi raggiungibili da eventuali collegamenti contenuti nell'articolo e/o dagli annunci pubblicitari sono completamente estranei all'Associazione, il loro accesso e uso è a discrezione dell'utente. Liberatoria completa qui.

Nota: L'articolo potrebbe riferire risultati di ricerche mediche, psicologiche, scientifiche o sportive che riflettono lo stato delle conoscenze raggiunte fino alla data della loro pubblicazione.


 

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