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Non è solo una, individuate tre forme di Alzheimer

Un team di ricerca europeo, guidato dall'Università di Ginevra e dalla clinica universitaria di Ginevra, propone un nuovo quadro per analizzare l'Alzheimer e suggeriscono un trattamento precoce e differenziato per le persone a rischio.

counting fingers one two three

Secondo il modello generalmente accettato, il morbo di Alzheimer (MA) è caratterizzato da una sequenza ineluttabile, dall'accumulo di proteine ​​tossiche nel cervello, alla demenza derivante dalla neurodegenerazione. Anche se questa sequenza deterministica a volte è vera, non sembra essere il caso per tutti i pazienti.


Inoltre, i risultati deludenti di farmaci commercializzati di recente  hanno evidenziato la necessità di riconsiderare questa malattia, che colpisce quasi 10 milioni di persone in Europa. Un consorzio europeo di medici e scienziati, guidato dall'Università di Ginevra (UNIGE) e dagli ospedali universitari di Ginevra (HUG) in Svizzera, che comprende anche l'INSERM in Francia, ha analizzato i dati presenti in quasi 200 studi pubblicati in precedenza.


Lontano dall'essere una malattia monolitica, in cui le stesse cause producono gli stessi effetti, questa analisi propone una categorizzazione di pazienti in tre gruppi, ciascuno con le sue dinamiche. Inoltre, il team di ricerca richiede un maggiore sforzo per individuare le persone a rischio, al fine di attuare misure preventive il più presto possibile.


Questo lavoro, pubblicato su Nature Reviews Neuroscience, propone un profondo cambio di paradigma nel modo di capire il MA. La malattia è solitamente descritta come una sequenza di 4 fasi: un deposito di amiloide appare nella corteccia cerebrale, quindi aumenta la tau iperfosforfolata e si aggrega nei neuroni. Questi causano la neurodegenerazione e infine il declino cognitivo, con perdita di memoria come primo sintomo.


Il primo farmaco che punta la deposizione delle placche amiloide nel cervello, approvato alcuni mesi fa dalle autorità di regolamentazione europee e americane, tuttavia si è dimostrato relativamente deludente.


Giovanni Frisoni, professore nel Dipartimento di Riadattamento e Geriatria nella Facoltà di Medicina dell'UNIGE e direttore dell'HUG Memory Center, che ha diretto questo lavoro, spiega:

"Tuttavia, se consideriamo il MA come una cascata sequenziale di eventi biologici, avrebbe dovuto essere molto più efficace. Fermare la produzione di amiloide-beta con un farmaco dovrebbe interrompere logicamente la perdita neuronale e quindi la perdita di memoria, che però non è stata osservata massicciamente. Inoltre, abbiamo scoperto che alcune persone con amiloide non sviluppano sintomi cognitivi. Cosa protegge il loro cervello dalla neurotossicità?"

 

Non uno, ma tre malattie

Per capire meglio perché il modello deterministico della malattia è presente in alcuni casi, ma non in altri, gli scienziati hanno condotto una revisione sistematica della letteratura, alcuni articoli della quale tendono a confermare questo modello, mentre altri lo confutano.


"Il nostro quadro interpretativo ha mostrato che il MA è più complesso di quanto appare", continua Daniele Altomare, ricercatore del gruppo di Giovanni Frisoni, che ha partecipato a questo lavoro. "Si possono distinguere tre gruppi di pazienti in base ai loro fattori di rischio, alle caratteristiche della malattia e al loro destino clinico".


Pertanto, la predizione della cascata è confermata solo in uno di questi tre gruppi, dove i pazienti portano una mutazione genetica ereditata conosciuta come 'autosomica dominante'. Fortunatamente, questa mutazione è rara, in quanto conduce allo sviluppo sistematico di un deficit cognitivo precoce (tra i 30 e i 50 anni).


Nella forma sporadica, lo sviluppo dei sintomi del deficit cognitivo differisce in base alla presenza o all'assenza di una variante genetica, l'allele E4 del gene ApoE, che sembra essere un importante fattore di rischio: due terzi dei portatori svilupperanno davvero, prima o dopo, i sintomi del MA.


Il terzo gruppo è costituito da persone senza una mutazione genetica associata, per la quale la presenza di proteine ​​neurotossiche sembra essere un fattore di rischio importante ma non unico.


"La metà dei nostri pazienti appartiene a questo terzo gruppo", enfatizza Giovanni Frisoni. "Il nostro modello probabilistico suggerisce quindi che si dovrebbero considerare tutti i fattori di rischio genetici e ambientali. Il deterioramento cognitivo insorge quando il loro peso supera la resilienza del cervello, che è determinato da fattori protettivi di origine genetica e ambientale".

 

Come nel caso delle malattie cardiovascolari

Nel caso di pazienti con malattie cardiovascolari, prevenire i rischi (ipertensione, obesità, ecc.) delle persone che non hanno mai avuto un attacco cardiaco o un ictus, si traduce in una riduzione molto significativa del numero di casi negli anni successivi. Al contrario, tale trattamento dopo un ictus o un attacco di cuore porta solo vantaggi minimi in termini di recupero.


"A nostro avviso, lo stesso ragionamento dovrebbe applicarsi al MA: è essenziale trattare le persone a rischio prima che appaiano i sintomi".


Identificare le persone a rischio fino ad ora richiedeva procedure costose e invasive come le scansioni con tomografia a emissione di positrone (PET) e le punture lombari. Ma il recente sviluppo di strumenti in grado di rilevare la presenza di amiloide-beta e di tau iperfosforilata nel sangue sta per cambiare tutto ciò e potrebbe consentire l'inclusione di tale individuazione nei check-up di routine.


"Sebbene la gestione del paziente non cambierà dalla sera alla mattina, capire più in dettaglio i meccanismi biologici al lavoro consentirà di sviluppare protocolli di ricerca più precisi che tengono conto delle diverse forme di MA"
, dicono gli autori.


Questa analisi è in linea con il lavoro svolto all'INSERM dal prof. Bruno Dubois, coautore di questo studio, finalizzato ad applicare criteri diagnostici clinici precisi:

"Negli anni a venire, speriamo di adattare le strategie preventive e terapeutiche a ciascun individuo, piuttosto che in base a un protocollo standardizzato che ha già mostrato i suoi limiti".

 

 

 


Fonte: University of Geneva (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.

Riferimenti: Giovanni Frisoni, Daniele Altomare, Dietmar Rudolf Thal, Federica Ribaldi, Rik van der Kant, Rik Ossenkoppele, Kaj Blennow, Jeffrey Cummings, Cornelia van Duijn, Peter Nilsson, Pierre-Yves Dietrich, Philip Scheltens & Bruno Dubois. The probabilistic model of Alzheimer disease: the amyloid hypothesis revised. Nature Reviews Neuroscience, 23 Nov 2021, DOI

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Nota: L'articolo potrebbe riferire risultati di ricerche mediche, psicologiche, scientifiche o sportive che riflettono lo stato delle conoscenze raggiunte fino alla data della loro pubblicazione.


 

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