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Un miliardo di anni di evoluzione suggerisce un nuovo approccio all'Alzheimer

Una nuova ricerca svolta alla Royal Holloway, Università di Londra, sollecita gli scienziati che stanno cercando di trovare una cura per il morbo di Alzheimer (MA) a concentrarsi sul ruolo delle proteine ​​del cervello che causano la malattia. Questo cambio di messa a fuoco potrebbe consentire lo sviluppo di nuovi trattamenti.


Sappiamo da tempo che il MA ereditato geneticamente (familiare) è causato da mutazioni in un gruppo di proteine ​​all'interno del cervello umano chiamato 'complesso gamma secretasi'.


Il ruolo di queste proteine ​​è stato identificato per la prima volta quando le proteine mutate causavano la formazione di depositi di placca presenti nel cervello dei pazienti di MA, portando alla morte delle cellule nervose nel cervello. Gli scienziati hanno trascorso molte decadi analizzando questo effetto senza identificare trattamenti efficaci.


In alternativa, alcuni ricercatori hanno suggerito che il 'complesso gamma secretasi' controlli anche un processo chiamato 'autofagia', per cui le proteine ​​vengono scomposte in amminoacidi e riutilizzate all'interno della cellula. Quando l'autofagia viene bloccata da mutazioni nel complesso gamma secretasi nel MA, le cellule del cervello muoiono.


Una nuova ricerca condotta dal professor Robin S.B. Williams e dal dott. Devdutt Sharma del Center for Biomedical Sciences della Royal Holloway, ha scoperto che il complesso gamma secretasi controlla l'autofagia anche in un'ameba unicellulare (Dictyostelium), che ha condiviso un antenato comune con gli umani circa un miliardo di anni fa (ndt: è ovvio che 1 miliardo di anni è il periodo di evoluzione dell'ameba, non dell'uomo; la frase è fuorviante, scritta particolarmente male).


La conservazione di questo ruolo nell'autofagia in tutti questi anni dimostra la sua importanza fondamentale nella salute delle cellule. Questo suggerisce quindi che i ricercatori dovrebbero interessarsi a questo processo per sviluppare nuovi trattamenti per il MA.


Durante questa ricerca, il professor Williams e il suo gruppo hanno usato l'ameba Dictyostelium come modello per indagare sul ruolo del complesso gamma secretasi. Il gruppo è riuscito a eliminare singole proteine ​​dal complesso, come la proteina presenilina, e monitorare i cambiamenti nella funzione delle cellule.


Hanno scoperto che quando venivano eliminate le proteine ​​dal complesso della gamma secretasi, il processo di autofagia si bloccava e quindi le cellule non erano in grado di riciclare le proteine.


Il professor Williams, ha dichiarato:

"Questi risultati suggeriscono che il ruolo del complesso gamma secretasi è conservato su un'enorme distanza evolutiva, indicando un ruolo di fondamentale importanza nel mantenere sane le cellule. Da ciò, proponiamo che i ricercatori che cercano nuovi approcci per trattare i pazienti con MA dovrebbero concentrarsi sul ripristino di normali livelli di autofagia nei neuroni dei pazienti con MA, e bloccare la morte delle loro cellule cerebrali.

"Fino ad ora, ci sono stati pochissimi progressi nella ricerca di una cura per il MA. Tuttavia, se gli scienziati iniziano ad adottare un approccio diverso per indagare su questa malattia, potremmo trovare un modo per bloccarla. Anche se i farmaci attuali rallentano lo sviluppo di alcuni sintomi, queste non sono soluzioni a lungo termine, ma semplicemente ritardano la progressione della malattia.

"Siamo fiduciosi che il nostro approccio innovativo a questa ricerca contribuirà a ri-orientare i ricercatori in questo settore, per sviluppare con successo nuovi trattamenti per i pazienti con MA".

 

 


Fonte: Royal Holloway, University of London via AlphaGalileo (> English text) - Traduzione di Franco Pellizzari.

Riferimenti: Devdutt Sharma, Grant Otto, Eleanor C. Warren, Philip Beesley, Jason S. King & Robin S. B. Williams. Gamma secretase orthologs are required for lysosomal activity and autophagic degradation in Dictyostelium discoideum, independent of PSEN (presenilin) proteolytic function. Autophagy, 21 Mar 2019, DOI: 10.1080/15548627.2019.1586245

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Nota: L'articolo potrebbe riferire risultati di ricerche mediche, psicologiche, scientifiche o sportive che riflettono lo stato delle conoscenze raggiunte fino alla data della loro pubblicazione.


 

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