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Se si legalizza la morte assistita, chi decide quale vita deve essere vissuta?

Dal momento che, nel 2015, il parlamento britannico ha respinto un disegno di legge che avrebbe legalizzato la morte assistita, gli attivisti hanno continuato a spingere per un cambiamento della legge. Ora, il Royal College of Physicians sta chiedendo ai suoi membri se il Regno Unito dovrebbe consentire la morte assistita. Un sondaggio simile dei medici, fatto dal College nel 2014, aveva rilevato che la maggioranza non approvava una modifica della legge.


Negli ultimi anni, altri paesi hanno esteso le leggi che disciplinano l'eutanasia per includere gradualmente casi di malattie mentali e condizioni non limitanti la vita. Ma queste rappresentano gravi minacce per le persone con disabilità, e dovrebbero essere attentamente considerate nei dibattiti sul cambiamento della legge nel Regno Unito.


Nel 2017, il Canada ha legalizzato l'assistenza medica alla morte, che consente agli adulti consenzienti che soffrono di condizioni gravi considerate irrimediabili, di porre fine alla propria vita. La legge canadese non esclude esplicitamente la malattia mentale come unica condizione medica di base per accedere all'eutanasia. Ciò ha generato un dibattito controverso, con analisi che suggeriscono che i criteri di 'irrimediabile' sono vaghi quando applicati a condizioni psichiatriche e possono variare tra i medici.


Nei Paesi Bassi, dove dal 2001 la legge permette ai medici di eseguire l'eutanasia su richiesta di un paziente, nei casi di sofferenza insopportabile senza alcuna prospettiva di miglioramento, è emerso che l'eutanasia è stata concessa a persone con disabilità intellettiva e disturbo dello spettro autistico. Per questi pazienti, l'incapacità di far fronte alle circostanze sociali e la crescente dipendenza, solitudine, depressione e la sensazione di essere un peso per gli altri, sono stati ritenuti sufficienti per soddisfare i requisiti legali di sofferenza intollerabile, che rendono l'eutanasia ammissibile per legge.

 

Il 'pendio scivoloso'

I casi canadesi e olandesi sono significativi. Nonostante le loro strette linee guida, i codici di pratica che regolano i protocolli di morte assistita potrebbero estendersi gradualmente a tutti i pazienti disabili e ai malati di mente che soddisfano i criteri, anche in assenza di una richiesta ben informata. Ciò potrebbe comportare la cessazione di quelle vite considerate non dignitose e prive di scopo per la società. Un simile scenario equiparerebbe di fatto disabilità, disturbi mentali, persino vecchiaia, alle malattie terminali e le considererebbe condizioni 'intollerabili' con cui vivere.


Oggi, le campagne mediatiche e le celebrità incoraggiano sempre più le persone a parlare di problemi di salute mentale e non si vergognano di chiedere aiuto, nel tentativo di ridurre lo stigma negativo intorno ad esse. Anche gli attivisti per i diritti dei disabili si sentono obbligati a spiegare apertamente perché la loro vita è degna di essere vissuta e non vogliono morire.


Nonostante questo, i dibattiti pubblici sono permeati di stereotipi negativi e ipotesi morali sulle persone con disabilità o malattie mentali. Nel Regno Unito, alcuni studiosi di etica hanno già chiesto di terminare la vita delle persone con demenza in nome di un concetto non specificato di identità personale. Se accettiamo che una condizione invalidante per tutta la vita, ma non limitante la vita, possa essere un criterio per l'eutanasia, le salvaguardie della morte assistita si reggono su un terreno instabile.


Nell'ambito di un progetto di ricerca sulle questioni etiche derivanti dal dibattito sulla disabilità e sul fine vita, ho sostenuto che il diritto di porre fine alla propria vita si basa su concetti filosofici dell'agire, della dignità e dell'autonomia. E che questi concetti hanno un disperato bisogno di essere rimodellati se guardiamo alla vita di coloro che, vivendo con una grave disabilità, dipendono dagli altri per le loro cure.


In una società ossessionata dal controllo, la dipendenza è considerata un destino peggiore della morte. Alcuni sostengono che cercare assistenza medica per morire è preferibile rispetto a una morte naturale, perché ripristina il potere di una persona di prendere una decisione, e offre un modo per evitare dolore, vergogna e la sensazione di non avere nulla per cui vivere. Ma questa non è una scelta 'libera': le associazioni di beneficenza riferiscono che le persone disabili temono di sentirsi sotto pressione per porre fine alla loro vita quando sentono vergogna della loro condizione o sentono che sono un peso per la società.


Nei dibattiti sul morire assistito, il potere di una persona di provocare la propria morte ha finito per simboleggiare l'espressione del libero arbitrio, dell'autonomia e dell'autodeterminazione, mentre la disabilità, i disturbi mentali e soprattutto la mancanza di autonomia sono visti come qualcosa di intrinsecamente brutto.

 

Affidarsi agli altri

Per le persone disabili che già vivono la loro vita in uno stato di dipendenza, la scelta di morire in modo da non dover fare affidamento sugli altri raramente sarà un fattore determinante. E, facendo un ulteriore passo avanti, tali dibattiti dovrebbero riconoscere che viviamo tutti in uno stato di dipendenza.


Nessuno potrebbe affermare di essere completamente autonomo nella propria vita senza l'aiuto della tecnologia, dell'assistenza sanitaria e - forse meno ovviamente - del supporto emotivo di amici, familiari e persone care. La vulnerabilità e l'interdipendenza sono una parte essenziale della natura umana e del benessere, e sono necessarie per la crescita umana. Sperimentiamo la dipendenza da bambini e cresciamo diventando parte di un mondo di strutture e relazioni sociali che sono plasmate da collaborazioni, mutuo aiuto e assistenza reciproca.


Se la società dimentica questo e rifiuta di accettare la disabilità, la malattia e il declino come parte costitutiva dell'esistenza umana, inevitabilmente giungerà ad accettare che la morte è preferibile alla dipendenza, e di conseguenza, che porre fine alla vita del disabile è più facile che lavorare per migliorare la sua esistenza.

 

 

 


Fonte: Lidia Ripamonti, ricercatrice associata del Von Hügel Institute for Critical Catholic Inquiry all'Università di Cambridge.

Pubblicato su The Conversation (> English text) - Traduzione di Franco Pellizzari.

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Liberatoria: Questo articolo non propone terapie o diete; per qualsiasi modifica della propria cura o regime alimentare si consiglia di rivolgersi a un medico o dietologo. Il contenuto non rappresenta necessariamente l'opinione dell'Associazione Alzheimer onlus di Riese Pio X ma solo quella dell'autore citato come "Fonte". I siti terzi raggiungibili da eventuali collegamenti contenuti nell'articolo e/o dagli annunci pubblicitari sono completamente estranei all'Associazione, il loro accesso e uso è a discrezione dell'utente. Liberatoria completa qui.

Nota: L'articolo potrebbe riferire risultati di ricerche mediche, psicologiche, scientifiche o sportive che riflettono lo stato delle conoscenze raggiunte fino alla data della loro pubblicazione.


 

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