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'La demenza dei nostri nonni non ci importava da bambini'



Da bambino ho avuto la fortuna di frequentare molte persone anziane. Che tutti e quattro i nonni avessero la demenza non ci importava un fico secco come bambini.


Un giorno uno dei nonni ha fatto il tè con il tabacco; l'altro per inumidire i suoi sigari non ha trovato di meglio che metterseli completamente in bocca, come aveva imparato in trincea a Somme.


Con o senza demenza, la loro indipendenza di spirito era notevole e intrigante. La nostra accettazione acritica di loro è stata temprata e trasmessa attraverso la lente della cura, dell'interesse e dell'impegno mostrato dai miei genitori e dalla loro famiglia.


Queste esperienze quasi certamente hanno influenzato la mia scelta di fare il geriatra, e la stragrande maggioranza dei geriatri condividono questo senso costante di piacere e fascino lavorando con le persone anziane, il gruppi di pazienti più complesso, ricco interiormente e stimolante.


Ho avuto anche la fortuna di incontrare gli scritti di una serie di visionari all'inizio della mia carriera, in particolare Stephen Post (The MoralChallenge of Alzheimer Disease, 1995 [La sfida morale dell'Alzheimer]) e Tom Kitwood (Dementia Reconsidered, 1997 [La demenza riconsiderata]), che sottolineano la totalità della nostra personalità nella demenza, anche se ostacolata dalle barriere della memoria e del linguaggio dei nostri modelli abituali di impegno sociale.


Corresponsabile della percezione pubblica negativa della demenza è la nostra cultura ipercognitiva, il prodotto del razionalismo e del capitalismo, per cui la chiarezza di mente e la produttività economica sembrano determinare il valore della vita umana.


Questa enfasi sproporzionata sulla funzione cognitiva deruba il nostro sistema etico di una fondamentale uguaglianza tra gli esseri umani. Come scrive Stephen Post, dobbiamo convertire il detto "Penso, dunque sono" in "Voglio, sento e mi collego; anche se la dimenticanza mi scollega dal mio ex io, comunque, io sono".


L'etica giudeo-cristiana dell'assistenza non ha mai accettato che il valore della vita umana si basi solo sulla ragione e sulla memoria, ma la società moderna ha difficoltà ad accettare questa perdita della funzione cognitiva.


E non è solo il grande pubblico, ma anche gli operatori sanitari che possono avere un negatività preoccupante verso l'umanità e le esigenze complesse di cura delle persone con limitazioni della cognizione. Recentemente, il mese scorso, sono rimasto sorpreso nel sentire un medico anziano di neuroscienze affermare in televisione che avrebbe preferito la morte alla demenza, dicendo "L'Alzheimer è una malattia disgustosa".


Quelli di noi che hanno persone con demenza in famiglia, anche se desiderano che non abbiano la malattia, non vogliono che vengano portati via. Diversi studi hanno dimostrato che la qualità della vita può essere preservata in coloro che vivono con la demenza, con angustie di varia misura per coloro che convivono e si occupano di loro, soprattutto in termini di dinamiche alterate di comunicazione e di relazione.


La nostra sfida è comprendere la complessità della sindrome, con molti colpiti in maniera lieve, e con molti in grado di godere in modo chiaro delle relazioni, della società e delle attività. Nelle fasi successive, i deficit neurologici possono rendere più difficile tale comunicazione, ma una ricerca cruciale deve essere quella di facilitare la nostra comunicazione a questi livelli.


Questa negatività è fortunatamente contrastata da una serie di attivisti in Irlanda, come evidenziato da un eccellente pacchetto di risorse pubblicato di recente da Suzanne Cahill e dal suo team del Dementia Services Information and Development Centre, e il DCU Elevator Programme di Kate Irving, per formare un ampio spettro di lavoratori sensibili alla dinamica alterata della comunicazione con demenza.


E' anche bello vedere l'HSE Awareness Programme lanciato ieri, nonostante la profonda ironia che insorge quando l'HSE soffoca l'accesso ai pacchetti Home Care, un pilastro del supporto per le persone che vivono con demenza e le loro famiglie, una importante erosione del loro patrimonio civico.


Tuttavia, l'impulso politico per sviluppare appositi supporti per quelli di noi che vivono con la demenza dipende in modo cruciale dall'accrescimento del nostro senso di solidarietà e di umanità comune, e dalla capacità di sciogliere la negatività e lo stigma che ancora incrostano la percezione popolare della sindrome. Sarà utile se questa campagna riuscirà a favorire questa positività e atteggiamento «can-do» (possiamo farcela).


Per i lettori che vogliono sondare più a fondo le possibilità di allargare tale opportunità per coloro che vivono con demenza, raccomando vivamente Forget Memory [Dimentica la memoria] di Anne Basting e How We Age [Come invecchiamo] di Marc Agronin, che descrivono come realizzare gli elementi di felicità nella vita - qualcosa da fare, qualcuno da amare, e qualcosa da aspettarsi - piuttosto che cedere al luogo comune, allo stigma e alla diagnosi come disastro.

 

 

 


Fonte: Prof. Des O'Neill, geriatra al Tallaght Hospital e autore di Ageing and Caring: A Guide for Later Life (Orpen Press)

Pubblicato in Irish Times (> English text) - Traduzione di Franco Pellizzari.

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Nota: L'articolo potrebbe riferire risultati di ricerche mediche, psicologiche, scientifiche o sportive che riflettono lo stato delle conoscenze raggiunte fino alla data della loro pubblicazione.


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