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Il silenzio dei medici sull'Alzheimer

"Un destino peggiore della morte", ha mormorato il mio collega dopo che abbiamo esaminato un anziano ricoverato in ospedale con una grave demenza.


Dalla sua cartella clinica sapevamo che il paziente era stato scultore affermato e dissenziente intellettuale.  Aveva tenuto dei corsi in una prestigiosa scuola d'arte, e il suo lavoro è stato esposto in tutta Europa e negli Stati Uniti.


A vederlo ora, con appena un frammento residuo della sua personalità, gravato da malanni fisici che non si dovrebbero augurare al peggior nemico, era più che straziante.


C'era qualcosa di quasi vergognoso nell'essere testimoni delle profonde umiliazioni di un essere umano nostro simile. Ero imbarazzato per lui, probabilmente come lui si sarebbe sentito imbarazzato se il suo sè di prima avesse potuto vedere il suo sé attuale. Vale a dire che il suo sè attuale mancava della capacità di essere consapevole che il suo stato offre poco conforto.


Il mio collega ed io siamo usciti un momento dalla stanza in silenzio, persi nel nostro disagio intimo, trasaliti nel nostro desiderio inespresso di passare ad altri pazienti. La demenza non è qualcosa di cui noi medici parliamo molto. Tutti noi abbiamo molti pazienti con demenza - e sempre più ogni anno - ma sembra che non ne parliamo come discutiamo di malattie renali o del trattamento del cancro. Possiamo parlare delle difficoltà dell'obesità o dell'enfisema, ma mai della demenza.


Perché il silenzio? Certamente non è che la demenza sia rara. L'Alzheimer, la forma più comune di demenza, è classificata la sesta causa di morte negli Stati Uniti, anche se recenti analisi suggeriscono che potrebbe in realtà essere la terza. Anche se non siamo specializzati in geriatria, l'invecchiamento della popolazione porta la demenza nello studio di ogni campo medico, salvo in pediatria.


Forse è l'invisibilità della malattia, soprattutto nei suoi primi stadi. La maggior parte delle visite mediche sono così affollate con le esigenze delle malattie clinicamente più evidenti (malattie cardiache, diabete, ipertensione), che noi medici possiamo perdere i sottili segnali della demenza.


Ho il sospetto, però, che la nostra reticenza derivi da problemi più profondi. Tutti le prime 10 malattie-killer in America sono potenzialmente prevenibili, o almeno modificabili; tutte, tranne la demenza. Il campo medico è legittimamente orgoglioso dei progressi che sono stati fatti contro le malattie cardiache, il diabete, l'ictus. Abbiamo test per individuare molti tumori, e i trattamenti che prolungano la vita. Anche i suicidi e le morti accidentali possono essere suscettibili di prevenzione.


Ma non c'è niente, davvero, che possiamo fare per la demenza. Non ci sono test di screening in grado di individuare la malattia prima della comparsa dei sintomi. E anche se ci fosse, non ci sono i trattamenti che fanno una differenza sostanziale. Per i medici, questo è profondamente frustrante. Non c'è da stupirsi se la demenza viene messa da parte. Nel tempo disgraziatamente limitato di una visita medica, siamo costretti a concentrarci sulle malattie che possiamo trattare.


Ma penso che il nostro silenzio sulla demenza sia più di questo. Per i medici, la moneta cognitiva è la nostra unica moneta. L'idea della mente che svanisce è più pietrificante di gran parte della devastazione fisica che conosciamo. La perdita di capacità intellettuale - per non parlare della personalità e della capacità di prendersi cura di se stessi - attinge ad una paura esistenziale che noi preferiamo dimenticare.


Ho pensato a questo mentre leggevo un recente numero della rivista Health Affairs dedicata all'Alzheimer - quasi 200 pagine che esplorano esaustivamente la diagnosi e il trattamento della malattia, l'esperienza dei pazienti e dei caregiver, l'onere enorme sopportato da coniugi e figli adulti dei pazienti. La profusione di commenti e di risultati della ricerca e di raccomandazioni della task force contrastava in modo imbarazzante con il relativo silenzio sul fronte clinico.


Questa non è la prima malattia in cui i medici arrivano dopo i ricercatori, le famiglie e gli attivisti. Il storia recentissima dell'AIDS è un altro esempio. E' facile vedere il parallelo con il disagio proprio dei medici e spesso l'ignoranza ostinata. In entrambi i casi, le azioni dei medici, o meglio la loro mancanza, possono essere solo in parte attribuiti alle difficoltà pratiche di trovare diagnosi e trattamento. C'è un misto di aspetti esistenziali ed emotivi di noi stessi che preferiamo ignorare e di cui spesso rimaniamo totalmente inconsapevoli.


Alla maggior parte dei medici è richiesto di ottenere la ricertificazione ogni 10 anni, di sottoporsi a una batteria di test e a corsi di formazione per tenersi aggiornati ed individuare le carenze nelle competenze mediche. Non facciamo, però, tutte le verifiche periodiche sul nostro io interiore, per scoprire eventuali mancanze nel nostro nucleo emotivo che potrebbero influenzare la cura dei nostri pazienti.


Proprio perché la diagnosi di demenza può essere difficile, e i trattamenti limitati in modo frustrante, non significa che possiamo evitare questa malattia. Dobbiamo dominare la nostra inquietudine, confrontarci con le nostre reazioni sconcertanti, in modo da essere lì completamente per i nostri pazienti, le loro famiglie e, invero, per noi stessi.

 

 

 

 


Scritto da:  Danielle Ofri, professoressa associata di medicina alla New York University e al Bellevue Hospital.

Pubblicato in New York Times (> English text) - Traduzione di Franco Pellizzari.

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