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Per i malati di Alzheimer ricevere delle cure è sempre più difficile

Fondi al lumicino, nessuna programmazione, personale e centri insufficienti. Crescono solo le Rsa, spesso inadeguate a gestire i pazienti 

alzheimers patient with professionals

«È necessario e irrinunciabile gestire la demenza, definita dall’Oms una priorità di salute pubblica». Così nell’accordo del 30 ottobre 2014 tra governo e Regioni sul Pnd (Piano nazionale demenze). In Italia si contano 2 milioni di persone con demenza e 3 milioni che se ne prendono cura, per un costo stimato tra 16 e 18 miliardi di euro l’anno.


Con la legge di Bilancio del 2020, il governo Conte ha stanziato 15 milioni per investimenti relativi al triennio 2021-2023. Dei 15 milioni, 900 mila sono stati destinati all’Iss, i restanti 14 milioni e 100 mila sono stati destinati alle 20 Regioni italiane che, con meno di 5 milioni di euro l’anno da dividersi tra loro, non hanno potuto concretizzare ciò che il governo suggeriva: migliorare la vita delle persone con demenza, creare una rete di servizi integrati, ridurre lo stigma, formare i medici di base.


Molto è rimasto sulla carta, mentre accade ciò che racconta Pietro Sangiorgio, presidente dell’associazione Asa (Associazione Alzheimer Salute Architettura), che raccoglie la disperazione di tanti. Come Luca, della provincia di Taranto, costretto a lasciare moglie e figli per andare a vivere dalla madre con l’Alzheimer. Una convivenza impossibile per l’irrequietezza senza controllo della signora, di fronte alla quale il medico di base faceva spallucce.


Luca ha dovuto optare per un ricovero in una delle Rsa vicine. L’attesa si è protratta e dopo anni ha trovato posto in una struttura di Matera: quaranta chilometri da casa a fronte di un costo di 3.000 euro mensili di retta. Una cifra che Luca non poteva permettersi. Per questo è stato costretto a ricoverare la madre in una residenza tra Potenza e Salerno, convenzionata con il sistema sanitario, che dista però 200 chilometri da casa.


Il suo è uno dei tanti casi che si ripetono un po’ in tutta Italia, che, a eccezione di poche Regioni virtuose, non ha centri per i disturbi cognitivi e demenze (Cdcd) sufficienti rispetto alla domanda. Sono 540 in tutto il Paese e vi lavorano in media 5 professionisti, per un totale di 2.568, dei quali il 14% non strutturato (fonte Iss).


La carenza di organico
spiega perché un quarto dei Cdcd è aperto una volta a settimana, mentre i tempi di attesa per una diagnosi si allungano. E perché l’assistenza domiciliare, più appropriata per i casi di demenza, nella maggior parte del territorio, è ridotta a una media di un’ora al mese.


Così i servizi lentamente chiudono a danno della prevenzione e i soldi stanziati sono spesi per far crescere solo le Rsa, non tutte adatte alla gestione di questi pazienti. Per Nicola Vanacore, responsabile dell’osservatorio nazionale per le demenze dell’Iss, è mancata una programmazione. Sia nel 2010 sia nel 2011 lo Stato aveva stanziato 20 milioni di euro, «oggi – dice Vanacore – non si sa se il Piano sarà rifinanziato».


Se i servizi funzionassero, si eviterebbero ricoveri e relativi costi inutili, si risparmierebbe per potere reinvestire nelle cure per le demenze. Invece bisogna ingegnarsi ottimizzando l’esistente come fa già l’Emilia-Romagna, che ha rimodulato le Rsa ora deputate non solo ai ricoveri ma anche ai servizi assenti sul territorio.

 

 

 


Fonte: Roberta Grima su L'Espresso (31 agosto 2023)

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