Esperienze e opinioni
I pazienti di demenza non sono in una 'forma mentale perfetta'. Ma chi lo è?
“Che le persone con demenza siano viste così facilmente come sparite o in sparizione, indica sicuramente ansie al di là dei timori ordinari di morte e malattia”, scrive Lynn Casteel Harper. (Foto: Travis Tanay)
Dopo i 70 anni, la filosofa e scrittrice Iris Murdoch ha iniziato a documentare nei suoi diari lo sfilacciamento della sua memoria. “Trovo difficoltà a pensare e a scrivere”, ha osservato. "Affrontalo". Lei ha scritto un altro romanzo prima di ricevere la diagnosi di morbo di Alzheimer (MA) nel 1997. Le bozze di una lettera di quell'anno furono poi scoperte tra le sue carte. “Mia cara”, scriveva, “ora sto andando via per qualche tempo. Spero che starai bene”. Una versione successiva era fatta solo di scarabocchi.
Che cosa significa “andare via”? Quali parti di noi sono strappate via dal MA e quali parti rimangono? In una indagine penetrante e poetica sulla demenza, Lynn Casteel Harper scava in una malattia che affligge circa sei milioni di americani e sembra ancora avvolta nel segreto, i suoi malati nascosti nelle istituzioni, i suoi sintomi dissimulati in un linguaggio particolare ed efficace di terrore e disprezzo.
“Ladro, rapitore, assassino al rallentatore, il MA a quanto si dice deruba, sottrae e cancella la memoria, la mente, la personalità di una persona, anche il suo sè”, scrive la Harper nel suo libro “On Vanishing”. “Che le persone con demenza siano così facilmente immaginate come svanite o in svanimento, che stanno soccombendo a un vortice di sofferenza particolarmente terrificante, lento e inarrestabile, sicuramente parla di ansie al di là delle paure comuni di morte e malattia”.
La Harper ha lavorato con pazienti con demenza come cappellano in una casa di cura e ha avuto decessi correlati alla demenza nella sua famiglia. Mentre lavorava al libro, ha saputo che entrambi i genitori sono portatori di una copia di una variante genetica collegata al MA ad esordio tardivo: “Ho una probabilità del 50% di avere una sola copia del gene, che raddoppia o triplica il mio rischio di sviluppare la malattia. Ho una probabilità del 25% di avere due copie, che eleva il mio rischio da 8 a 12 volte, dandomi una possibilità del 51-68% di avere il MA quando avrò 85 anni”.
Lei scrive senza paura o avversione, ma con una curiosità robusta e inquieta, un acume per riformulare la nostra comprensione della demenza con sensibilità e precisione. Non ha semplicemente osservato il declino di pazienti e familiari; ha anche osservato nuove opportunità di “compassione, sincerità e umiltà”.
Lo scrittore Floyd Skloot ha descritto la propria demenza dicendo: “Sono stato ri-tessuto”. Era stupito di trovare i suoi legami con la sua famiglia diventare più profondi: “L'amore e la passione sono entrati nella mia vita per la prima volta da decenni”. Kate Swaffer, attivista pro-demenza e scrittrice, ha confessato lo stesso alla Harper, meravigliandosi di una nuova chiarezza e senso di scopo. “La demenza è piena di paradossi”, le ha detto. “So molto di più di quanto sapevo prima”.
Non è che le persone con demenza svaniscano, sostiene la Harper, è che noi insistiamo che lo fanno. Un “bigottismo culturale sia contro il deficit cognitivo che la vecchiaia” imputa loro una sorta di assenza e una perdita agghiacciante di personalità. Noi mettiamo il sé nel linguaggio e nel vigore, nell'essere utili alla società; quando le persone non ce la fanno più sono punite per questo e per il panico che generano quando ci confrontiamo con lo spettro della nostra stessa estinzione.
La Harper cita uno studio del 1997 che ha esaminato la “perdita di personalità” nei pazienti con demenza, nel quale un terzo dei caregiver familiari ha riferito di credere che l'esistenza della sofferenza relativa fosse senza senso; quindi non sorprende che quegli stessi caregiver trattavano i loro pazienti come se fossero “socialmente morti”.
Non solo isoliamo e nascondiamo i pazienti con demenza, ma la Harper trova che anche coloro che si occupano di loro portano un marchio. Gli operatori in tali strutture di assistenza agli anziani, “la maggior parte dei quali sono donne di colore, soffrono di infortuni sul lavoro quasi tre volte e mezzo più della media nazionale”. Quasi il 40% dipende dall'assistenza pubblica. Il 15% degli operatori di assistenza vive al di sotto della soglia di povertà federale.
Come è avvenuto questo? La Harper fornisce solo una storia sommaria di come è stata compresa e trattata la demenza in questo paese. Ciò che dà a “On Vanishing” la sua energia particolare e idiosincratica è l'imprevedibilità dei suoi punti di interesse. Piuttosto che concentrarsi su casi di studio della propria pratica o su modelli alternativi di cura nelle varie culture (lei non cita un gerontologo in Giappone, che cerca di integrare i residenti nella società) si volge verso l'arte e la letteratura.
È un modo diverso di pensare e di sentire che lei persegue. Guarda all'arte della scuola di pittura vanitas del 17° secolo (=natura morta con elementi simbolici allusivi alla caducità della vita), con la sua ossessione per la fragilità della vita, e l'esempio di Re Lear. “Temo di non essere nella mia mente perfetta”, confessa Lear al suo ultimo compagno che lo segue, il Matto (Fool). Quello di cui hanno bisogno i caregiver, dice la Harper, sono le qualità del Matto: lealtà, fermezza, spirito.
Lei guarda l'esempio di Emerson, la cui memoria era svanita negli ultimi anni della vita, ma i cui amici lo descrivevano non come deteriorato, ma come immerso in uno stato prolungato di sogno. Forse questo è un modello migliore, lei propone.
“Sognare non inspira necessariamente terrore; al contrario, sognare è considerato una parte della vita, anche se una delle sue manifestazioni più strane. I sognatori non subiscono stigma sociale, umiliazione o ostracismo. Al contrario, le metafore del sogno evocano spesso qualità tenere, perfino spirituali”.
Questo punto di vista porta la Harper in alcune direzioni eccentriche. C'è un discorso lungo e non necessario nel correggere il linguaggio del “buio” per esempio, che viene, uno potrebbe pensare, a scapito di informazioni più preziose e concrete su ciò che potrebbe significare prendersi cura di una persona con demenza, o per conciliare la diagnosi per se stessi.
Occuparsi di qualcuno implica non solo amicizia e testimonianza d'amore, ma anche pesantezza del lavoro. Assistenza implica denaro, e la Harper menziona solo fugacemente i fattori strutturali - mancanza di assicurazione, mancanza di supporto per i caregiver familiari in questo paese - che potrebbero sopportare le maggiori responsabilità per il nostro modo di trattare le persone con demenza, rispetto a come fanno le nostre metafore goffe.
Sontag ha scritto che siamo duplici cittadini del regno dei malati e del regno dei sani. Nel suo libro, bello e non convenzionale, la Harper esamina la porosità dei confini, il potere dell'immaginazione e del linguaggio di concedere un futuro migliore ai nostri cari e a noi stessi.
Lei descrive una scena del documentario “First Cousin Once Removed”, in cui il regista Alan Berliner documenta la lotta che suo cugino, il poeta Edwin Honig, ha avuto con il MA. "Sai chi sono?" gli chiede ripetutamente Berliner. A un certo punto, a metà del film, Honig, apparentemente infastidito, rigira la domanda a Berliner: "Sai chi sei tu?"
Fonte: Parul Sehgal in The New York Times (> English text) - Traduzione di Franco Pellizzari.
Riferimenti: On Vanishing: Mortality, Dementia, and What It Means to Disappear By Lynn Casteel Harper. 224 pages. Catapult. $26.
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